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DEXTER

Come spesso mi accade, ho scoperto tardi la serie rispetto all’uscita ufficiale su Fox Crime. All’inizio non l’avevo presa in considerazione, anzi l’idea non mi era neanche sembrata un granché: Il killer dei serial killer? What’s the like? Ma dopo il primo episodio sono diventata una “Dexter addicted”.

Ogni sera, religiosamente, guardavo una o due puntate, fino a consumare le otto stagioni complete. Ho amato ogni episodio, e quando è giunto il momento di dire addio a Dexter e agli altri personaggi mi sono sentita improvvisamente orfana. “E adesso?”

Dexter è una serie dove lo spettatore sta inevitabilmente dalla parte del “cattivo”. Perché come in tutti i romanzi o i film dove il cattivo è il risultato di un’ingiustizia o un sopruso, non si può non fare il tifo per lui. Da bambino assiste all’omicidio efferato della madre e crescendo scoprirà di sentire strani istinti violenti che dovrà imparare a nascondere e a canalizzare.

Dexter è condannato alla violenza. “Sono nato nel sangue”, dice il personaggio. Ma in realtà, ed è questo il bello, la serie non parla dell’essere sociopatico ma di come a volte ci si lascia condizionare da strade che altri tracciano per noi. Cosa sarebbe accaduto se Dexter non fosse stato adottato da? E se questo non l’avesse convinto a? Le sliding doors della vita.

Ogni stagione è dedicata a un tema portante dell’essere umano: l’amore, la famiglia, l’amicizia, la fede … In ogni stagione il personaggio si evolve. Il tutto nel contesto caldo e spensierato delle spiagge di Miami, con personaggi secondari memorabili come Debra e Angel.

Non mancano i colpi di scena, a volte forse anche un po’ rocamboleschi. È pur sempre fiction. Un’ultima osservazione pro Dexter: la sigla. Adoro le sigle e i titoli dì testa dei film. Sono già una carta di presentazione. La sigla iniziale di Dexter è studiata nei dettagli visivi in modo super calzante.

Buona visione!

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Jacqueline Kennedy Onassis.

La biografia mai raccontata.

La vita della moglie del presidente americano John Kennedy, assassinato a Dallas nel 1963, ebbe un prima e un dopo.

Il prima, furono gli anni glamour della corsa al senato e alla presidenza; gli anni dei viaggi, delle feste e della consacrazione. Il dopo, fu la vita che seguì alla tragica morte del marito, dopo un matrimonio durato solo pochi anni.

Barbara Leaming nella biografia tradotta in Italia per quelli di Odoya (traduzione di Massimiliano Bonatto) concentra la sua attenzione su un aspetto poco considerato dai biografi della First Lady americana. Cosa accadde a Jackie dopo l’assassinio del marito John? Come affrontò il trauma di quella tragica e improvvisa morte?

Elogiata e celebrata da tutto il popolo americano durante gli anni della presidenza Kennedy e per la compostezza e il contegno che aveva dimostrato durante i giorni immediatamente successivi all’assassinio del marito, la First Lady rimase una vittima isolata di quel tragico evento. Il tempo per lei si fermò e restò intrappolata in una scatola di ricordi. Come dentro una moviola continuò a rivivere, giorno dopo giorno, fotogramma dopo fotogramma, gli eventi di Dallas.

La gente attorno, gli amici, gli americani, all’inizio l’ascoltarono, la compresero. Poi iniziarono a fare finta di niente, a voltare il viso dall’altra parte. Per non vedere, per dimenticare. Pochi compresero cosa stesse accadendo davvero nella mente sconvolta di Jackie.

Nel 1964 non c’era ancora un nome per la sua sofferenza. Al tempo, l’unico ad avvicinarsi a intuire la natura del suo calvario era stato Harold Macmillan, paragonandola alle esperienze di guerra dei veterani come lui.

Nel 1980 il Disturbo Post-Traumatico da Stress (DPTS) fu incluso nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, testo ufficiale dell’Associazione Americana Psichiatri.

Sotto ogni punto di vista, il dramma di Jackie si attaglia alla descrizione degli effetti stravolgenti per il corpo e la mente.

Il libro della Leaming svela retroscena interessanti sulle battaglie legali che la ex First Lady intentò contro case editrici e testate giornalistiche nel tentativo di non vedere pubblicati alcuni testi che riguardavano il marito. Non era per egoismo o falso riserbo, ma un tentativo della donna di proteggere da un lato il ricordo del Presidente e dall’altro se stessa. Non riusciva più infatti a convivere con i ricordi dell’assassinio di Dallas. Era scivolata nella depressone, beveva per dormire, assumeva farmaci, senza che peraltro questi riuscissero a darle la pace sperata.

Il 20 dicembre del 1966, due anni dopo la morte di Kennedy, Vera Glaser pubblicò un articolo in cui accusava la signora Kennedy di rimuginare sul passato e di non voler voltare le spalle come invece facevano le vedove del Vietnam con coraggio. In seguito, apparvero altri articoli severi che l’accusavano di crogiolarsi nell’autocommiserazione.

In realtà ciò che l’America non perdonava a Jacqueline Kennedy era di “rivivere la tristezza e il dolore” associati all’assassinio Kennedy. Il popolo desiderava porre fine a tutta quella sofferenza. Jackie visse, secondo la Leaming, quella che si chiama la “seconda ferita”, ovvero il rifiuto nei confronti di chi soffre, che alla lunga, sottolinea l’autrice, può dimostrasi più dolorosa dell’episodio traumatico originale.

Sentendosi ormai minacciata e incompresa, Jackie lasciò gli Stati Uniti per rifugiarsi nell’isola di Skorpios del secondo marito, Onassis. Anni dopo, riflettendo sulla sua scelta disse a una sua amica: “Volevo scomparire. Volevo trovare un posto sicuro e rimanerci”.

La storia tra l’armatore greco e la ex moglie di Kennedy non ebbe l’esito che Jackie aveva sperato. Tuttavia la donna trovò il modo di salvarsi grazie a un hobbie che l’aveva accompagnata tutta la vita: la lettura. Era una grande lettrice e conoscitrice della letteratura russa e francese.

Nel 1967 iniziò a lavorare come junior editor presso la Vicking Press (casa editrice tutt’oggi attiva, n.d.r.) e continuò a dedicarsi all’editing fino all’anno della sua morte. La biografia della Leaming ha il pregio di tracciare un ritratto di Jacqueline kennedy diverso, che va oltre la donna da copertina, e ne scandaglia l’animo e le sofferenze. Non le nega ciò che rappresentò durante la presidenza Kennedy, ma mostra anche quanto quell’immagine si ritorse contro di lei.

Il 28 ottobre 1980, durante una cena a New York City, il poeta inglese Stephen Spender le chiese quale fosse stato il suo più grande risultato nell’arco della sua vita. Jackie rispose: “Credo sia stato quello di essere passata attraverso un periodo molto difficile e di potermi ancora considerare relativamente sana di mente. Ne sono orgogliosa”.